LOBI, il cielo in una stanza../ The sky in a room…

All’origine del mondo c’erano una coppia di umani, ed erano dei giganti. Il nome dell’uomo era Koùnn e il nome della donna era Khèr. Non sappiamo da dove venissero. Alcuni dicono che  discesero dal cielo, altri che emersero dalla terra. Ebbero molti figli ed i loro figli rimasero con loro e si sposarono . Ignoravano la cultura e non costruivano case, perché non soffrivano né la fame né il freddo.

Per nutrirsi tagliarono un pezzo di cielo e lo fecero cuocere . Il cielo a quel tempo era sulla terra. Così i bambini non soffrirono mai la fame. Era Tangba, Dio, che li aveva autorizzati a farlo, ma a una condizione: non dovevano guardare  il cielo mentre cuoceva  ! Quindi misero il pezzo di cielo in una ceramica accuratamente chiusa. Un giorno fu il turno di Koùnn di cucinare, ma dovette  allontanarsi da casa perché doveva urinare. Allora  Khèr, divorata dalla curiosità, approfittò della sua assenza per sollevare il coperchio della pentola. Immediatamente scoppiò un tuono e il cielo fuggì: salì, ed è da allora che è così alto, fuori dalla portata degli uomini.

 La brousse, le champ et la Jachère au Burkina Faso, ed. Robin Duponnois e Bernarde Lacombe (Parigi: L’Harmattan, 2007)

Così i Lobi, popolo splendido e poverissimo che abita in quei paesi  che noi chiamiamo Burkina Faso, Ghana e Costa d’Avorio, raccontano l’origine del mondo.

Sono doverose alcune premesse: i linguaggi dei popoli extraeuropei hanno un’origine antica e profondamente diversa dalla nostra: la parola è muta (1) , sacra e pericolosa perché tenta di dare corpo al Mistero, percepito  attraverso immagini destinate ad evocare stati di coscienza. 

In questo senso quei linguaggi sono sorprendentemente in sintonia con il  nostro tempo, che è tempo di immagini. Aggiungo che ciò non è necessariamente negativo: più conosciamo il funzionamento del nostro cervello più sappiamo che pensiamo immagini, e non parole..se non si parte da questo presupposto ogni analisi antropologica e culturale risulta falsata: sarebbe come tentare di tradurre una lingua usando il vocabolario sbagliato. 

Inoltre  spesso gli africani ci raccontano quello che vogliamo sentirci dire..Nonostante la nostra supponenza essi ci considerano spesso come immaturi pericolosi e benestanti ..credendo e praticando speranza, fede e carità , non capiscono perché non facciamo figli, perché non preghiamo, perché sprechiamo…e tentano di semplificare concetti profondi adeguandoli a quello che pensano essere il nostro linguaggio ed a ciò che conoscono della nostra visione del mondo.

Restano sorprendenti analogie: ci sono un uomo e una donna che vivono in un Eden in cui il Cielo è in Terra, dove non esiste bisogno  grazie ad un Dio generoso che chiede solo di non violare il Mistero con uno sguardo considerato inutilmente curioso. Aver violato quell’unico precetto rompe il patto, terra e cielo tornano distanti, e si presenta  la necessità  di soddisfare bisogni primari. E’ la donna ad aver violato il patto, è l’uomo che ha la responsabilità di programmare e gestire la soddisfazione di tali bisogni. E’ impossibile non notare le analogie con il mito di Adamo ed Eva…ricordando le premesse, azzardo l’ipotesi di una sorta di necessità maschile atta a  giustificare un predominio dovuto al mutamento delle condizioni di vita derivanti dall’abbandono del nomadismo e  dal  consolidamento di un modo di vivere stanziale, che conseguentemente richiede almeno due condizioni: un maggior uso della forza fisica, necessaria per coltivare la terra, erigere manufatti abitativi, fortificare villaggi e difenderli, e compensare il prestigio del ruolo femminile fino a quel momento centrale, essendo il cosiddetto culto della Grande Madre diffuso presso la grande parte delle civiltà antecedenti la rivoluzione neolitica. Penso sia utile ricordare anche l’insorgere di figure autoritarie sempre più incardinate su dogmi, autoreferenziali e svincolate dall’autorevolezza. Re, sacerdoti, condottieri….nasce la piramide del potere, oggettivamente maschilista oltre che patriarcale.

Tornando ai Lobi, la narrazione mitologica appare però meno violenta di quella biblica, sembra quasi proporre una diversità  tra l’umano e il divino che presenta almeno un vantaggio: la responsabilità della conoscenza, che è sorella della curiosità..Nella lingua italiana sono entrambi sostantivi femminili…le “stanze” nelle quali i Lobi pongono i loro oggetti sacri, metaforicamente non hanno pareti, ne soffitto…come la stanza immaginata da Gino Paoli nella sua indimenticabile canzone..  

  1. IVAN Bargna, Arte Africana JAKA BOOK 2003 pag. 57 

                            da Kunst und Region der Lobi , Piet Meyer . Zurich 1981

I LOBI

I  Lobi  sono Animisti, e credono nell’esistenza di geni o spiriti della savana: alcuni sorvegliano  gli esseri umani per punirli se commettono azioni negative. La punizione può consistere nel rendere pazzo  chi ha sbagliato, o nel farlo ammalare gravemente. Altri spiriti, i Thil, sono invece alleati degli esseri umani, favoriscono  la fecondità, la cura e la prevenzione di incidenti e  malattie, il raccolto. I geni punitori sono visibili solo da chi subisce la punizione, gli altri possono scegliere se materializzarsi  sotto forma di Thila o Bateba. I Thila possono materializzarsi in semplici pezzi di legno, in sassi, pezzi di ferro non lavorati dall’uomo, oppure decidere di essere rappresentati in modo più complesso. In quest’ultimo caso, la persona che riceve la richiesta da parte di un Thil di essere materializzato, deve recarsi da un veggente che tramite un rito religioso riceve le istruzioni da parte del Thil su  come vuole essere rappresentato nella sua forma visibile, antropomorfa o zoomorfa. La persona che ha ricevuto  da un Thil la richiesta di essere materializzato, dopo aver ricevuto le istruzioni del veggente, si reca da un artigiano specializzato nella costruzione dei Thila,  il quale si metterà al lavoro seguendo scrupolosamente le istruzioni ricevute. Il risultato è insieme reliquiario e reliquia, materializzazione del divino. Avendo un ruolo centrale nella vita dei Lobi, i Thila sono onorati, serviti e nutriti  anche con sacrifici di sangue. Ogni Thil, in cambio della protezione che fornisce , può esigere,  da parte della persona per cui agisce i comportamenti più diversi:  che non si cibi più di carne di capra,  o che diventi uno scultore di Thila a sua volta , o qualunque cosa , che chiaramente non può essere rifiutata.

Ci sono varie opzioni per  poter possedere un Thila:  un Thil, incarnato in un animale che è stato ucciso da  un cacciatore, può essere posseduto dal cacciatore stesso che comprenderà sua esistenza  dal fatto di avere subito una forte emozione durante il contatto con l’animale, oppure  può già trovarsi nello stomaco di un animale appena ucciso,  sotto forma di ferro destinato al cacciatore. Generalmente comunque i Thil si manifestano attraverso i sogni, chiedendo di essere materializzati. Alcuni Thil vogliono essere incarnati in diversi Thila, destinati a favore  la fertilità la protezione da incidenti e malattie, il  raccolto, eccetera.

Più generalmente si può dire che i  Thila siano la materializzazione degli antenati che decidono, in cambio di un rito propiziatorio, di venire ad aiutare un loro discendente meritevole, come ad esempio un uomo che tratta bene la famiglia, rispetta il padre e la madre e i Thila già presenti in casa.

Essi vengono posti nei tre altari casalinghi : il primo è all’esterno davanti  alla porta d’entrata, il secondo  sul tetto della casa e il terzo nell’altare all’interno dell’abitazione. Figure a forma di serpente vengono affiancate a Thila più grandi e dalla forma antropomorfa per rafforzare un insieme di forze alleate a protezione delle persone, delle case e dei villaSi può dire che sono la materializzazione delle forze invisibili di cui l’essere umano ha necessità per affrontare le difficoltà della vita, in perenne contatto con il divino per il tramite degli antenati, che sono stati visibili, poi invisibili e che tornano  nuovamente visibili attraverso i Thila. In questo senso essi pongono l’esperienza  della morte in una dimensione meno definitiva. 

Thila e Bate ba

I Lobi non scolpiscono solo  figure antropomorfe – solo queste sono chiamate bate ba – ma anche varie figure di animali : tra le altre iene, antilopi, elefanti, camaleonti  serpenti, uccelli . Anch’esse sono collocate nei santuari.

Appartengono alla famiglia dei Thila, esseri soprannaturali che hanno il potere di comunicare con gli esseri viventi e di proteggerli. 

Le rappresentazioni degli uccelli sono particolarmente numerose e presenti, sotto forma di sculture in legno  nei santuari per ordine dei Thila. “Gli scultori devono essere in grado di scolpire le diverse specie di uccelli in un modo che tutti possano riconoscere immediatamente l’uccello desiderato. Ma perché un Thil vuole che uno di questi uccelli di legno sia presente  nel suo santuario? Se il proprietario del thil è minacciato di pericolo mentre, ad esempio, sta lavorando nei suoi campi, visitando i mercati, viaggiando o è lontano da casa, il thil può inviargli questo uccello – non la figura di legno, ma un uccello vivente di questo tipo-  che lo avvertirà con il suo specifico grido affinché egli  cerchi immediatamente un indovino, da cui imparerà quale pericolo è sorto all’improvviso e come affrontarlo.” 

(Meyer, Kunst und Religion der Lobi. Zurich 1981 pag. 113) 

Toópár e daàká

“ Presso i Lobi i  toópár , sgabelli a tre gambe degli uomini sono comunemente usati sia  come possibili oggetti contundenti, sia per  indicare il carattere essenzialmente agricolo che fonda la loro visione del mondo. 

Bognolo identifica il  toópár come un “indicatore sociale primario [la cui] immagine è diventata uno stereotipo” da quando Labouret ha menzionato il loro uso occasionale come mazze, e mette in discussione questo stereotipo sottolineando l’importanza dello sgabello come segno del rango familiare del proprietario. È di proprietà solo di un capofamiglia ed è esposto  pubblicamente come status symbol. Gli sgabelli degli uomini vengono scolpiti durante la costruzione della thilduù o stanza del santuario domestico, marcando  così la posizione  rituale del proprietario.Sono comunemente fatti con il legno duro di un Diospyrus mespiliformis, o albero di bacche,  che di solito si trova nelle vicinanze del luogo di culto .Dopo la morte del primo proprietario, il nome e il significato dello sgabello cambiano quando viene trasmessa a suo figlio. Lo sgabello del defunto viene ribattezzato daàká, abbreviazione di “à da à ká hírè, che significa  ‘vengo, resto  al tuo fianco ma non mi fermo”.  Tramandato di generazione in generazione, Bognolo propone lo sgabello come simbolo di “coesione di gruppo”, e questo legame si applica direttamente agli uomini che possiedono tali oggetti, e indirettamente alla famiglia allargata che vive sotto la loro autorità. I mutamenti di significato di questo sgabello sono legati anche ad una riorganizzazione della thilduù (stanza del santuario) del defunto da parte del figlio, che si concretizza in tre fasi distinte. Nel triennio successivo al bòbuùr, o secondo funerale del padre (durante il quale lo spirito del defunto entra ufficialmente nella terra dei morti), il figlio consulta un indovino per avere conferma del fatto  che suo padre voglia essere rappresentato in un santuario speciale noto come thré. In tal caso, un artista caratterizzato da un alto grado di iniziazione viene incaricato di scolpire le figure da un tipo di legno che è proprio della linea patriarcale del defunto. Le specifiche caratteristiche di questo processo devono ancora essere formalmente indagate, ma Bosc osserva che tutti gli scultori di legno di Lobi devono avere un livello base di iniziazione che comporta l’assunzione di thèl-thii, un medicinale che impedisce allo scultore di diventare cieco, pazzo o paralizzato da spiriti maligni che vivono sugli alberi noti come kontèè-pou. Prima che le figure degli antenati siano completate, il figlio può rappresentare lo spirito del padre attraverso un oggetto  a forma di forchetta rovesciato noto come gbuù, ma non mediante sculture antropomorfe. La consacrazione dell’oggetto inizia lungo un percorso considerato significativo per l’antenato, dove un pollo viene sacrificato sull’oggetto in presenza di membri del clan patriarcale del defunto. Se accettato, l’oggetto viene prima collocato all’interno della casa del defunto dove il miglio viene macinato dalle donne, e riceve ulteriori offerte da coloro che desiderano rendere omaggio. È significativo notare che, a differenza di molti altri oggetti sacri usati tra i Lobi, lo  gbuù non deve entrare in contatto con il sangue e le piume di un’offerta sacrificale. La cerimonia si conclude con la condivisione  di torte di miglio, che segnala l’attivazione del santuario thre . Ma l’installazione permanente come thìlkõtína, o figura di antenati, non avrà luogo per molti altri anni, tempo che è considerato necessario allo spirito del defunto per diventare ufficialmente un antenato.  Questo contesto cultuale  depotenzia l’idea che i Toópár / Daàká siano prevalentemente usati come arma nel senso specifico del termine : sempre Bognolo li propone infatti come immagine della “coesione di gruppo” sottolineando l’importanza dello sgabello come arma spirituale : non va dimenticato che i Lobi considerano pericoloso qualsiasi contatto prolungato con il suolo straniero perché le forze ancestrali esistenti, che variano a seconda del luogo, possono rivelarsi pericolose . Per tenere a bada i pericoli del suolo straniero, il daàká è usato per mantenere il proprietario al sicuro sollevato dalla sua superficie.Lo sgabello è quindi parte  del santuario, mazza, simbolo di status domestico e scudo contro i poteri soprannaturali in terre straniere: non c’è soluzione di continuità tra l’arma fisica e  quella spirituale, ma coerenza  con la struttura narrativa che caratterizza ‘l’arte Lobi finalizzata a preservare l’identità formale  dell’immagine, espressione della “coesione di gruppo”. Le dinamiche di questa coesione sono patrilineari, funerarie, religiose / spirituali, militanti e, appunto, artistiche.Ma questa è solo una delle numerose funzioni per lo sgabello. Per questo anche se un daàká è finalizzato essenzialmente a garantire al  proprietario il mantenimento di  una percezione  fisica e spirituale di sicurezza e autonomia, esso  svolge un ruolo centrale nelle relazioni tra i diversi popoli dell’area

Toópár si basa sulla frase, à tò pár, o “sono accovacciato”. 

thèl-thii, e’ un medicinale che impedisce allo scultore di diventare cieco, pazzo o paralizzato da spiriti maligni che vivono sugli alberi noti come kontèè-pou.

fonte: Cory Keith Gundlach, “The river and the shrine: Lobi art and sense of place in Southwest Burkina Faso.” MA (Master of Arts) thesis, University of Iowa, 2012.

https://ir.uiowa.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=3029&context=etd

The sky in a room…

At the origin of the world there were a couple of humans, and they were giants. The man’s name was Koùnn and the woman’s name was Khèr. We don’t know where they came from. Some say they came down from heaven, others that they emerged from the earth. They had many children and their children stayed with them and got married. They ignored the culture and did not build houses, because they suffered neither hunger nor cold.

To feed themselves, they cut a piece of heaven and cooked it. Heaven was on earth at that time. Thus the children never went hungry. It was Tangba, God, who had authorized them to do so, but on one condition: they should not look at the sky while it cooked! Then they placed the piece of heaven in a carefully closed pottery. One day it was Koùnn’s turn to cook, but he had to leave home because he had to urinate. Then Khèr, devoured by curiosity, took advantage of his absence to lift the lid of the pot. Immediately thunder broke out and the sky fled: it rose, and it has been since then that it has been so high, out of reach of men.

da  La brousse, le champ et la Jachère au Burkina Faso, ed. Robin Duponnois and Bernarde Lacombe (Paris: L’Harmattan, 2007)

Thus the Lobi, a splendid and very poor people who live in those countries we call Burkina Faso, Ghana and the Ivory Coast, tell of the origin of the world.

Some premises are necessary: ​​the languages ​​of non-European peoples have an ancient origin and profoundly different from ours: the word is mute (1), sacred and dangerous because it tries to give substance to the Mystery, which is perceived through images intended to evoke states of consciousness.

In this sense, those languages ​​are surprisingly more suited to our time, which is the time of images. I add that this is not necessarily negative: the more we know the functioning of our brain, the more we know that we think images, and not words … if we do not start from this assumption, every anthropological and cultural analysis is false: it would be like trying to translate a language with wrong vocabulary.

Furthermore, Africans often tell us what we want to hear … Despite our arrogance they often consider us immature, dangerous and wealthy … believing and practicing hope, faith and charity, they don’t understand why we don’t have children, why we don’t pray, why we waste … And they try to simplify profound concepts by adapting them to what they think our language is and what they know about our worldview.

Surprising analogies remain: there are a man and a woman who live in an Eden where Heaven is on Earth, where there is no need thanks to a generous God who only asks not to violate the Mystery with a look considered unnecessarily curious. Having violated that one precept breaks the pact, earth and heaven return far apart, and the need arises to satisfy basic needs. It is the woman who has violated the pact, it is the man who has the responsibility of planning and managing the satisfaction of these needs.

It is impossible not to notice the analogies with the myth of Adam and Eve … recalling the premises, I hazard the hypothesis of a sort of male necessity capable of justifying a predominance due to the change in living conditions due to the abandonment of nomadism and the consolidation of a permanent way of life, which consequently requires at least two conditions: a greater use of physical strength, necessary to cultivate the land, erect residential buildings, fortify villages and defend them, and compensate for the prestige of the female role up to now a central moment, being the so-called cult of the Great Mother widespread among most of the civilizations prior to the Neolithic revolution. I think it is also useful to remember the emergence of authoritarian figures increasingly hinged on dogmas, self-referential and released from authority. Kings, priests, leaders … the pyramid of power is born, objectively male-dominated as well as patriarchal.

Returning to the Lobi, the mythological narrative appears less violent than the biblical one, it almost seems to propose a difference between the human and the divine that has at least one advantage: the responsibility of knowledge, which is the sister of curiosity. feminine nouns … the “rooms” in which the Lobi place their sacred objects, metaphorically they have no walls or ceiling … like the room imagined by Gino Paoli in his unforgettable song ..

  1. IVAN Bargna, Arte Africana JAKA BOOK 2003 pag. 57 

THE LOBI

The Lobi are Animists, and they believe in the existence of geniuses or spirits of the savannah: some supervise human beings to punish them if they commit negative actions. The punishment may consist in making the wrongdoer insane, or in making him seriously ill. Other spirits, the Thil, are instead allies of human beings, they favor fertility, the cure and prevention of accidents and diseases, the harvest. Punishing genes are only visible to those who are punished, others can choose whether to materialize in the form of Thila or Bate ba. The Thilas can materialize in simple pieces of wood, stones, pieces of iron not worked by man, or decide to be represented in a more complex way. In the latter case, the person who receives the request from a Thil to be materialized, must go to a seer who through a religious rite receives instructions from the Thil on how he wants to be represented in its visible, anthropomorphic or zoomorphic. The person who has received from a Thil the request to be materialized, after having received the instructions of the seer, goes to a craftsman specialized in the construction of the Thilas, who will set to work carefully following the instructions received. The result is both a reliquary and a relic, the materialization of the divine.

Having a central role in the life of the Lobi, the Thila are honored, served and nurtured even with blood sacrifices. Each Thil, in exchange for the protection it provides, can demand from the person for whom it acts the most diverse behaviors: that he no longer eats goat meat, or that he become a sculptor of Thila in turn, or whatever, which clearly cannot be rejected.

There are various options to be able to own a Thila: a Thil, embodied in an animal that has been killed by a hunter, can be owned by the hunter himself who will understand its existence from having suffered a strong emotion during contact with the animal. , or it may already be in the stomach of a freshly killed animal, in the form of iron intended for the hunter. Generally, however, the Thils manifest themselves through dreams, asking to be materialized. Some Thils want to be embodied in different Thilas, intended for fertility, protection from accidents and disease, the harvest, etc.

More generally, it can be said that the Thila are the materialization of ancestors who decide, in exchange for a propitiatory rite, to come and help a deserving descendant of theirs, such as a man who treats his family well, respects his father and mother and Thila already present in the house.

They are placed in the three home altars: the first is outside in front of the entrance door, the second on the roof of the house and the third on the altar inside the house. Snake-shaped figures are placed side by side with larger, anthropomorphic Thila to strengthen a set of allied forces to protect people, homes and villages.

It can be said that they are the materialization of the invisible forces that the human being needs to face the difficulties of life, in constant contact with the divine through the ancestors, who were visible, then invisible and which become visible again through i Thila. In this sense, they place the experience of death in a less definitive dimension.

The Lobi not only carve anthropomorphic figures – only these are called bate ba – but also various animal figures: among others hyenas, antelopes, elephants, chameleons, snakes, birds. They too are located in the sanctuaries. They belong to the Thila family, supernatural beings who have the power to communicate with living beings and to protect them.

The representations of birds are particularly numerous and present, in the form of wooden sculptures in the sanctuaries by order of the Thila. “Sculptors need to be able to sculpt different bird species in a way that everyone can instantly recognize the desired bird. But why does a Thil want one of these wooden birds to be present in his sanctuary? If the owner of the thil is threatened with danger while, for example, he is working in his fields, visiting markets, traveling or is away from home, the thil can send him this bird – not the wooden figure, but a living bird of this type- that he will warn him with his specific cry so that he will immediately look for a fortune-teller, from whom he will learn what danger has suddenly arisen and how to deal with it. “

(Meyer, Kunst und Religion der Lobi. Zurich 1981 p. 113)

#thila #thil  #tribaleglobale  #giulianoarnaldi 

Toópár e daàká

While toópár or men’s three-legged stools are commonly used to illustrate a casual hostility among the Lobi, the same object has been used to illustrate their essential agricultural character. Bognolo identifies toópár as a “primary social marker [whose] image has become a stereotype” since Labouret mentioned their occasional use as war clubs. She challenges this stereotype by emphasizing the significance of the stool as a mark of the owner’s familial rank. It is owned only by a head of the household and is carried around publically as a status symbol. Men’s stools are sculpted when the thilduù or domestic shrine room is built, and thus mark the ritual independence of the owner.They are commonly made from the hardwood of a Diospyrus mespiliformis, or jackalberry tree that usually shelters a village shrine.

After the death of the first owner, the name and significance of the stool changeswhen it is passed on to his son. The stool of the deceased is renamed daàká, anabbreviation of “à da à ká hírè, or ‘I am coming, stuck to you, without stopping.’”Passed on through generations, Bognolo presents the stool as a symbol of “group cohesion,” and this bond applies directly to men who own such objects, and indirectly to the extended family that lives under their authority.The changes in the significance of this stool are also tied to a reorganization of the deceased’s thilduù (shrine room) by his son, which takes shape in three distinct phases. In the three year period following the bòbuùr or second funeral of his father (during which the spirit of the deceased officially enters the land of the dead), the son consults a divinerto confirm that his father wants to be represented in a special shrine known as thré. If so, an artist marked by a high degree of initiation is commissioned to sculpt the figuresfrom a type wood that is proper to the deceased’s patriclan. While the extents of this process remain to be published, Bosc notes that all Lobi wood sculptors must undergo a basic level of initiation that involves taking thèl-thii, a medicine that prevents the sculptor from becoming blind, mad, or paralyzed by malevolent tree-dwelling spirits known as kontèè-pou. Before the ancestor figures are complete, the son is allowed to represent his father’s spirit through an inverted fork-shaped branch known as gbuù, but not with figure sculpture. The consecration of the object begins along a path considered to be significant to the ancestor, where a chicken is sacrificed upon the object in the presence of members from the deceased’s sub-patriclan. If accepted, the object is first placed inside the house of the deceased where millet is ground by women, and receives further offerings by those who wish to pay their respects. It is significant to note that unlike many other shrine objects used among the Lobi, gbuù must not come into contact with the blood and feathers of a sacrificial offering. The ceremony ends with the shared consumption of millet-cakes, which signals the activation of the thré shrine. But the permanent installation of thìlkõtína, or ancestor figures, will not take place for several more years—time which is considered necessary for the spirit of the deceased to officially become an ancestor.

This context for men’s stools shifts away from the common emphasis on its use asa blunt weapon. However, Bognolo also presents the image of “group cohesion” the Lobi by stressing the significance of the stool as a spiritual weapon: “the Lobi consider any extended contact with foreign soil as dangerous because the powers thatdwell in it, which vary depending on the location, often prove harmful. In order to keep the dangers of foreign soil at bay, the daàká is used to keep the owner safely elevated from its surface.

Accordingly, the stool is used as shrine furniture, a club, a symbol of domestic status, and a shield against supernatural powers in foreign lands. In this shift from physical to spiritual weapon, the presentation remains consistent with dominant narratives that use Lobi art to maintain an image cultural isolation, now referred to as “group cohesion.” The dynamics of this cohesion are patrilineal, funerary, religious/spiritual, militant, and indeed—artistic.

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