E’ una bella storia, una storia di memoria tessuta e cantata. E’ una storia di grande attualità: la scrivono le donne, custodi ancestrali di ancestrali saperi, a cui è affidata la fatica e la responsabilità della memoria che trasmettono con sapiente bellezza; è una storia di minoranze a rischio in un mondo concentrato su ciò che si ha e non su ciò che si è; una storia di essere minacciato dall’avere. E ancora una volta la voce potente di una bellezza che arriva da lontano ci mette a pensare. E’ anche una storia di speranza e di opportunità. Questo oggetto è arrivato nella collezione di Tribaleglobale come tanti altri, come un relitto portato sulle nostre rive dalle onde del grande oceano di quel Suk virtuale che è il mercato dell’arte tribale, portando con se tanta bellezza e pochissime informazioni. Sono riuscito a ricostruirne la storia grazie agli strumenti del nostro tempo: il computer, la rete, i tanto vituperati social e precisamente grazie ad un gruppo FB, Ethnic Textiles Community, in cui ho postato una fotografia. Chris Buckley, membro di questo gruppo, mi ha fornito informazioni precise su cui ho basato la mia ricerca. C’è speranza. Come sempre non sono le cose o gli strumenti ad essere inutili se non pericolosi. E’ l’uso che scegliamo di farne.
E’ possibile mantenere viva la memoria di un popolo, i suoi usi e costumi, senza alcuna forma scritta o dipinta ? Almeno in un caso, almeno fino a pochi decenni fa, un popolo ci è riuscito. E’ il popolo Kam, è parte della famiglia linguistica Tai-Kadai ed è considerata una delle millenarie comunità Bai-Yue. I cinesi Han li chiamavano Liao durante la dinastia Han, Geling durante la dinastia Tang, Dong dalla dinastia Ming in poi. Dong significa grotta, ed il termine deriva dal fatto che quel popolo viveva intorno ai ruscelli e alle grotte di montagna nello Guizhou e nell’Hunan, province montuosa nel Sudovest della Cina. Qui resistono ancora villaggi rurali tradizionali, abitati da gruppi minoritari come i Miao e i Dong. Le donne anziane del popolo Kam, chiamate Za, lavorano e cantano, anzi lavorano cantando, dall’alba al tramonto. Le canzoni, tramandate di generazione in generazione in forma rigorosamente orale, si arricchiscono di nuove strofe, diventando una epopea narrata per ore con un canto lento e ipnotico. Il lavoro consiste nella tessitura di abiti particolari e complessi, prevalentemente utilizzati nelle cerimonie. Non c’è traccia della conoscenza di forme di scrittura fino al 1958, ma nemmeno la Rivoluzione Culturale riuscì a sradicare la tradizione orale , anche per l’isolamento dovuto alla asperità dei luoghi abitati, letteralmente incastrati tra alte montagne. Ci è riuscita la “rivoluzione consumistica”; l’arrivo di nuove tecnologie, la tendenza epocale a spopolare i villaggi riempendo le città in nome di una vita più comoda e più facile ha portato molti giovani lontani dalle loro radici, sia fisicamente che culturalmente. E’ cambiata la reazione con il tempo, e con la fatica necessaria ad apprendere e praticare le tecniche complesse ed elaborate che caratterizzano il particolare procedimento di tessitura tradizionale di questo popolo. Di fatto oggi con ogni Za che muore se ne va un patrimonio di conoscenze, e la tessitura- un tempo vera cerimonia rituale – è sempre più frettolosa attrazione turistica pesantemente semplificata dall’introduzione di componenti pre fabbricate industrialmente.
Il procedimento di tessitura tradizionale è stato fortunatamente ben documentato in una pubblicazione di MARIE ANNA LEE, Kam Women Artisans of China: Dawn of the Butterflies . La ricercatrice ha seguito il lavoro di cinque anziane tessitrici del villaggio di Dimen documentando quanto segue.
“ Molte delle arti femminili ruotano attorno al provvedere alla famiglia. L’abbigliamento fatto a mano è fondamentale data la quantità di tempo necessaria per produrlo. In passato, le donne coltivavano il proprio cotone e lo filavano per molte sere fino a renderlo un filo sottile. Ora gli artigiani trovano più economico acquistare il filo fatto a macchina. Lo trattano con alcali durante la notte, lo sciacquano e lo battono con una pala da lavaggio su grandi pietre piatte vicino al fiume. Quindi lo amidano in acqua tiepida di riso e lo risciacquano di nuovo. Lo torcono e lo tirano con un corto tassello prima di lasciarlo asciugare al sole. Ciò rende il filo più resistente e resistente del tessuto fatto a macchina.
Il telaio
Il filo finito viene misurato, organizzato e messo su un telaio di legno. Vicini ed amici vengono in aiuto durante questo processo fisicamente impegnativo. Chiacchierano e cantano mentre lavorano. Innanzitutto, gli artigiani avvolgono il filo su grandi coni. Con l’aiuto di una tavola guida con occhielli, le donne trasferiscono il filo, chiamato ordito, su un’unica tavola di orditura che assomiglia a due cavalletti con punte. La distanza tra i cavalletti può essere regolata a seconda della lunghezza del tessuto che l’artigiano desidera produrre al telaio.
Da lì, lo trasferiscono a un subbio di ordito, che si trova sul retro di un telaio di legno. Il telaio differisce leggermente dal suo equivalente occidentale, ma i principi di tessitura e il tessuto risultante sono simili. La preferenza degli artigiani è per il tessuto scuro, ed il colore si ottiene aggiungendo indaco e altri coloranti finché il tessuto non diventa quasi nero. Un esame più attento rivela che in realtà è blu-viola molto scuro con una qualità iridescente che cambia l’aspetto del colore in varie condizioni di luce. La realizzazione dei coloranti e il processo di tintura sono un segreto gelosamente custodito che viene tramandato di madre in figlia ed è circondato da vari tabù.
Le donne coltivano il proprio indaco. Fanno fermentare le sue foglie per rilasciare la tintura. Successivamente, stemperano il liquido con calce e ne ossidano il contenuto versandolo avanti e indietro tra due contenitori. Mettono il contenuto in un secchio forato e lasciano defluire l’acqua. L’indaco si deposita sul fondo del secchio. La pasta si conserva coperta in un contenitore ermetico e può essere utilizzata fino a due anni.
È necessaria una reazione chimica complessa affinché il colorante indaco aderisca alle fibre. I tintori di indaco di tutto il mondo hanno sviluppato processi unici e utilizzano ingredienti distinti affinché la trasformazione avvenga. Le donne di Dimen usano pasta di indaco, acqua di cenere, calce agricola, acqua calda e vino di riso. Aggiungono sempre il liquido da un bagno di tintura esaurito se devono iniziarne uno nuovo. Senza di esso, la fermentazione non avviene in modo tempestivo. Il contenuto del tino viene mescolato in senso orario con uno speciale bastoncino che ogni artigiano possiede solo per quello scopo. La vasca viene quindi coperta e mantenuta ermetica per due o tre giorni. Se il liquido diventa giallo con bordo blu, la fermentazione è avvenuta e può iniziare la tintura.
Tintura dei tessuti
La tintura del tessuto è un processo prolungato che dura molti giorni e settimane poiché molti passaggi richiedono l’esposizione al sole, e le donne tingono mentre svolgono altre faccende. Il tessuto viene introdotto lentamente nella vasca, lasciato lì per cinque minuti, estratto e piegato pezzo per pezzo, infine esposto all’aria per cinque minuti. Questo processo viene completato cinque volte per un ciclo di tintura, dopodiché il tessuto viene lasciato asciugare al sole. Dopo il quinto ciclo, il tessuto viene lavato nel fiume e asciugato. Quindi viene inamidato due volte nel liquido dei semi di soia ed essiccato. Viene nuovamente lavato nel fiume e cotto a vapore. Seguono da due a cinque cicli di tintura con un lavaggio nel fiume dopo ogni ciclo.
Quando sul tessuto iniziano a comparire strisce nere, il tessuto viene tinto sette volte con un colorante rosso ottenuto dalla tintura di igname, foglie di rododendro e sommacco cinese. Il tessuto, ormai nero, viene ulteriormente irrigidito con liquido ricavato da pelle di bue. Viene cotto a vapore e sottoposto a due ulteriori cicli nella vasca indaco. Successivamente viene battuto con un mazzuolo di legno per conferire lucentezza alla stoffa. Il tempo di battitura dipende da quanta lucentezza l’artigiano vuole che il tessuto abbia. Il tessuto molto lucido è solitamente riservato agli abiti da cerimonia poiché richiede molto più tempo per essere prodotto. La stoffa poi passa attraverso due brevi cicli di tintura indaco e viene lavata nel fiume. Infine, il tessuto è pronto per essere cucito sui vestiti. Fino ad allora, viene arrotolato e avvolto con cura in carta di gelso fatta a mano.
Il tessuto scuro fa da sfondo a ricami colorati e altri accessori come cinture intrecciate a mano e gioielli decorati. Le donne ricamano a punto pieno motivi della fauna e della flora locale sui grembiuli e sotto grembiuli, sugli orli dei cappotti, sulle maniche, sulle scarpe, sui marsupi e sui cappelli. I colori riflettono le tonalità vibranti che si trovano nella natura che li circonda. I motivi sono specifici del villaggio e contrassegnano chi lo indossa come membro della sua comunità.
Imparare il punto pieno
Sfortunatamente, ci vuole pazienza per imparare a fare bene il punto pieno e la maggior parte delle giovani donne preferisce invece il punto croce. Gli anziani artigiani non ricamano da decenni poiché non hanno la destrezza e la vista per farlo. Molti artigiani ricorrono quindi all’acquisto di ricami fatti a macchina che mancano dell’identità locale quando realizzano nuovi costumi.”
Tratto da MARIE ANNA LEE, Kam Women Artisans of China: Dawn of the Butterflies
It’s a beautiful story, a story of memory woven and sung. It is a very timely story: it is written by women, ancestral custodians of ancestral knowledge, who are entrusted with the effort and responsibility of memory, transmitted with skilful beauty; it is a story of minorities at risk in a world focused on what you have and not on what you are; a story of being threatened by having. And once again the powerful voice of a beauty that comes from afar makes us think. It is also a story of hope and opportunity. This object arrived in the Tribaleglobale collection like many others, like a wreck brought to our shores by the waves of the great ocean of that virtual Souk which is the tribal art market, bringing with it so much beauty and very little information. I managed to reconstruct its history thanks to the tools of our time: the computer, the internet, the much-maligned social media and precisely thanks to a FB group, Ethnic Textiles Community, on which I posted a photograph. Chris Buckley, a member of this group, provided me with precise information on which I based my research. There is hope. As always, it is not things or tools that are useless if not dangerous. It is the use we choose to make of it.
Is it possible to keep alive the memory of a people, its habits and customs, without any written or painted form? At least in one case, at least until a few decades ago, a people succeeded. They are the Kam people, they are part of the Tai-Kadai linguistic family and are considered one of the thousand-year-old Bai-Yue communities. The Han Chinese called them Liao during the Han Dynasty, Geling during the Tang Dynasty, Dong from the Ming Dynasty onwards. Dong means cave, and the term derives from the fact that those people lived around mountain streams and caves in Guizhou and Hunan, mountainous provinces in southwestern China. Traditional rural villages still survive here, inhabited by minority groups such as the Miao and the Dong. The elderly women of the Kam people, called Za, work and sing, or rather work while singing, from dawn to dusk. The songs, handed down from generation to generation in a strictly oral form, are enriched with new verses, becoming an epic narrated for hours with slow and hypnotic singing. The work consists in the weaving of particular and complex clothes, mainly used in ceremonies. There is no trace of knowledge of forms of writing until 1958, but not even the Cultural Revolution managed to eradicate the oral tradition, also due to the isolation due to the harshness of the inhabited places, literally stuck between high mountains. The “consumer revolution” succeeded; the arrival of new technologies, the epochal tendency to depopulate the villages by filling the cities in the name of a more comfortable and easier life has led many young people away from their roots, both physically and culturally. The reaction has changed with time, and with the effort necessary to learn and practice the complex and elaborate techniques that characterize the particular traditional weaving process of this people. In fact today, with every Za who dies, a wealth of knowledge goes away, and weaving – once a true ritual ceremony – is an increasingly hasty tourist attraction heavily simplified by the introduction of industrially pre-manufactured components.
The traditional weaving process has fortunately been well documented in a publication by MARIE ANNA LEE, Kam Women Artisans of China: Dawn of the Butterflies . The researcher followed the work of five elderly weavers from the village of Dimen, documenting the following:
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Handmade Clothing
Many of the women’s arts revolve around providing for the family. Handmade clothing is central given the amount of time that is needed to produce it. In the past, women grew their own cotton and spun it over many evenings into a fine thread. Now the artisans find it more economical to buy machine-made thread. They treat it in alkali overnight, rinse it and beat it with a washing paddle on large flat stones by the river. Then they starch it in warm rice water and rinse it again. They twist it and pull at it with a short dowel before letting the sun dry it. This makes the thread tougher and stronger than machine-made fabric.
Importance of Handloom of the Kam People
The finished thread is measured, organised and put on a wooden loom. Neighbours and friends come help during this physically demanding process. They chat and sing while working. First, the artisans wind the thread on large cones. With the help of a guide board with eyelets, the women transfer the thread, called warp, to a unique warping board that looks like two sawhorses with spikes. The distance between the sawhorses can be adjusted depending on the length of cloth the artisan wants to produce on the loom.
From there, they transfer it to a warp beam, which sits at the back of a wooden loom. The loom differs somewhat from its western equivalent but the weaving principles, and the resulting cloth, are similar. The artisans like their fabric dark. They dye the handwoven cloth in indigo and other dyes until it is almost black. Closer examination reveals it is actually very dark blue-violet with an iridescent quality that changes the colour’s appearance under various light conditions. The making of the dyes and the dyeing process is a closely guarded secret that is passed down from mother to daughter and is surrounded by various taboos.
Indigo is Used by the Kam People
The women grow their own indigo. They ferment its leaves to release the dye. Afterwards, they slake the liquid with lime and oxidize the contents by pouring it back and forth between two containers. They place the contents in a leaky bucket and let the water drain out. The indigo settles at the bottom of the bucket. The paste is kept covered in an airtight container and can be used for up to two years.
Complex chemical reaction needs to take place for the indigo dye to adhere to fibres. Indigo dyers around the world have developed unique processes and use distinct ingredients for the transformation to take place. The women in Dimen use indigo paste, ash water, agricultural lime, warm water and rice wine. They always add liquid from an exhausted dye bath if they need to start a new one. Without it, the fermentation does not happen in a timely manner. The contents of the vat are stirred clockwise with a special stick that each artisan has only for that purpose. The vat is then covered and kept airtight for two to three days. If the liquid turns yellow with a blue rim, the fermentation has taken place and dyeing can start.
Fabric Dyeing
The fabric dyeing is a prolonged process spread over many days and weeks as many of the steps require sunshine and women dye in between doing other chores. The fabric is slowly fed into the vat, left there for five minutes, taken out and folded bit by bit, and finally left out to air for five minutes. This process is completed five times for one dyeing cycle, after which the fabric is left in the sun to dry. After the fifth cycle, the cloth gets washed in the river and dried. Then it is starched twice in soy-bean liquid and dried. It is washed in the river and steamed. Two to five dyeing cycles follow with a wash in the river after each cycle.
When black streaks start showing on the cloth, the cloth is dyed seven times in red dyestuff made from dyeing yam, Rhododendron leaves and Chinese sumac. The now black cloth is further stiffened with ox skin liquid. It is steamed and goes through two further cycles in the indigo vat. Then it is beaten with a wooden mallet to give the cloth a sheen. The time depends on how much sheen the artisan likes the fabric to have. The very shiny cloth is usually reserved for ceremonial attire as it takes much longer to produce. The cloth then goes through two short indigo dyeing cycles and gets washed in the river. Finally, the cloth is ready to be sewn into clothes. Until then, it is rolled and carefully wrapped in handmade mulberry paper.
The dark fabric serves as a backdrop to colourful embroidery and other accessories like handwoven belts and ornate jewellery. The women embroider satin-stitch motifs of local fauna and flora on their aprons and under-aprons, hems of their coats, their sleeves, shoes, baby carriers and hats. The colours reflect the vibrant hues found in the nature all around them. The motifs are specific to the village and mark the wearer as a member of its community.
Learning Satin Stitch
Unfortunately, it takes patience to learn to satin stitch well and most young women prefer to cross stitch instead. The elderly artisans have not embroidered for decades since they lack the dexterity and the eyesight to do so. Many of the artisans therefore resort to buying machine-made embroidery that lacks the local identity when they are making new costumes.
Giuliano ARNALdi, ONZO 8 dicembre 2023
fonti http://eastasiaorigin.blogspot.com/2020/02/ethnic-origin-of-kam.html