LA FORMA DEL SUONO
Cos’è un suono? e sopratutto, a cosa server? Certamente è una forma di comunicazione, e in quanto tale le funzioni sono molteplici: normalmente quando il suono evoca emozioni e coinvolge lo chiamiamo musica. E’ l’udito il senso preposto a cogliere questo tipo di stimolo, ma in realtà sappiamo che la nostra percezione è sinestetica, coinvolge cioè tutti i sensi. Proviamo a pensare agli elementi che compongono un’opera d’arte come a elementi alfabetici di un sistema di comunicazione metaforico, naturalmente strutturato per interiorizzare e trasmettere un concetto in modo istintivo, profondo, efficace, utile. Proviamo a leggere anche gli elementi di un’opera – un viso, un paesaggio, il colore di un drappeggio – non solo per ciò che rappresentano, ma come forma, colore, materia, come strumenti usati per slatentizzare, per evocare stati di coscienza.
Funziona, perché l’arte non descrive ma testimonia ed evoca.
Certamente essendo linguaggio si adegua al contesto. Ma può andare ben oltre perché essendo incardinata nel nostro stesso modo di essere neuro fisiologico , diventa lingua universale, per ciascuno e non per tutti. Non è chiamata ad essere banale, ma ad essere semplice, non diminuisce, fa sintesi, con/fonde elementi e linguaggi diversi.
In questa ottica si può suonare un segno, oppure disegnare un suono. Quando l’opera si libera da canoni formali ben codificati, quando una scultura non ha la funzione di descrivere una figura ma di evocarne la consistenza ontologica, il suo essere più profondo e quindi universale, e’ facile che essa tiri fuori nel suo interlocutore la sensazione di un suono, magari il suono del silenzio.
Nella nostra parte del mondo abbiamo appiattito questa sensazione, l’abbiamo imprigionata, seppellita dentro la gabbia dell’apparire che nasconde e soffoca l’essere. Ci sono altri linguaggi artistici, più liberi ed essenziali ( ma non banali) che invece mantengono la potenza evocativa per la quale sono stai pensati: i linguaggi delle arti tradizionali extraeuropee, e in particolare modo africane.
L’alfabeto formale usato in quelle parti del mondo, rapido, sincopato, a volte morbido e sinuoso e subito dopo netto, duro, chiede, e a volte impone all’interlocutore un coinvolgimento sensoriale che va oltre la vista, tirando in campo immediatamente l’udito e conseguentemente il resto di nostri sensi senza soluzione di continuità.
Come la musica Jazz.
E’ irrilevante l’origine della parola jazz ( che veniva scritta jass). Che derivi dal francese jaser (gracchiare, fare rumore, o dal modo in cui si diceva fare sesso nel dialetto della Louisiana francofona nel XVIII secolo, resta il fatto che fu la prima voce dei popoli africani costretti in schiavitù.
Quella voce fu spazio consolate dove mantenere vivo il diritto alla felicita che ci rende umani, e che nessun padrone o tiranno riuscirà mai a soffocare totalmente. Quella voce rimbalza potente ancora oggi, grazie a sassofoni, pianoforti, percussioni. E grazie al linguaggio apparentemente muto delle sculture che da tante parte del mondo arrivano fino a noi. E’ quello che d’istinto fa la musica Jazz, non a caso figlia del Continente Nero: le forme delle opere d’arte provenienti da quelle culture hanno lo stesso ritmo potente, istintivo e spiazzante del linguaggio musicale che chiamiamo Jazz: esporle durante un concerto può essere una forma di dialogo che amplifica la potenza dei diversi linguaggi facendo emergere dal profondo il potere evocativo ed emozionante della bellezza assoluta.
Prendiamo ad esempio le sculture a “zig zag”. E’ una forma ancestrale, semplice ma non banale, si trova praticamente in ogni cultura del mondo, dalle chiese medioevali alla architettura dei Dogon del Mali: evoca attraverso il segno gli alti e bassi della vita, la forza intermittente ma inarrestabile dell’acqua…e ha un ritmo potente.
THE SHAPE OF SOUND
What is a sound? and above all, what server is it for? It is certainly a form of communication, and as such the functions are manifold: normally when sound evokes emotions and involves we call it music. Hearing is the sense in charge of capturing this type of stimulus, but in reality we know that our perception is synaesthetic, that is, it involves all the senses. Let’s try to think of the elements that make up a work of art as alphabetic elements of a metaphorical communication system, naturally structured to internalize and transmit a concept in an instinctive, profound, effective, useful way. Let’s also try to read the elements of a work – a face, a landscape, the color of a drapery – not only for what they represent, but as shape, color, material, as tools used to reveal, to evoke states of consciousness.
It works, because art does not describe but testifies and evokes.
Certainly being language it adapts to the context. But it can go much further because being grounded in our own neuro-physiological way of being, it becomes a universal language, for each one and not for everyone. It is not called to be banal, but to be simple, it does not diminish, it synthesizes, with / merges different elements and languages.
With this in mind, you can play a sign or draw a sound. When the work is freed from well-codified formal canons, when a sculpture does not have the function of describing a figure but of evoking its ontological consistency, its deeper and therefore universal being, it is easy for it to bring out the sensation of a sound, perhaps the sound of silence.
In our part of the world we have flattened this feeling, we imprisoned it, buried it inside the cage of appearing that hides and suffocates being. There are other artistic languages, freer and more essential (but not trivial) which instead maintain the evocative power for which they were conceived: the languages of the extra-European traditional arts, and in particular African ones.
The formal alphabet used in those parts of the world, rapid, syncopated, at times soft and sinuous and immediately afterwards clear, hard, asks, and at times imposes on the interlocutor a sensory involvement that goes beyond sight, immediately pulling the hearing and consequently the rest of our senses seamlessly.
Like Jazz music.
The origin of the word jazz (which was written jass) is irrelevant. Whether it comes from the French jaser (croaking, making noise, or the way it was said to have sex in the French-speaking Louisiana dialect in the 18th century, the fact remains that it was the first voice of African peoples forced into slavery.
That voice was a consoled space in which to keep alive the right to happiness that makes us human, and that no master or tyrant will ever be able to totally suffocate. That voice still bounces powerful today, thanks to saxophones, pianos, percussion. And thanks to the apparently silent language of the sculptures that come down to us from many parts of the world. This is what Jazz music instinctively does, not surprisingly the daughter of the Black Continent: the forms of the works of art from those cultures have the same powerful, instinctive and unsettling rhythm of the musical language we call Jazz: exhibit them during a concert can be a form of dialogue that amplifies the power of different languages by bringing out the evocative and exciting power of absolute beauty from the depths.
Take for example the “zig zag” sculptures. It is an ancestral form, simple but not trivial, it is found in practically every culture in the world, from medieval churches to the architecture of the Dogon of Mali: through the sign it evokes the ups and downs of life, the intermittent but unstoppable force of water … and has a powerful rhythm.
Giuliano Arnaldi, Onzo 2022
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